
Attorno al nostro corpo si estende uno spazio invisibile, determinato dall’ampiezza dei movimenti che possiamo compiere mediante l’estensione dei nostri arti; tale spazio fa parte di noi al pari del nostro corpo ed elicita massimamente le nostre reazioni, e le nostre difese, nel caso in cui venga invaso. Solitamente è quello spazio che permettiamo di attraversare soltanto alle persone più care e di cui ci fidiamo maggiormente. Purtroppo l’affollamento odierno fa sì che spesso ci si trovi in situazioni “ristrette”, se non addirittura di contatto con perfetti sconosciuti.
La ricerca è stata condotta studiando 139 passeggeri di un’affollata tratta ferroviaria ( da New Jersey a Manhattan), in una situazione quanto mai ecologica.
L’ipotesi era di verificare come umore e stress dei pendolari venissero modificati in base alla vicinanza prossemica e all’affollamento.
Contrariamente alle ipotesi soltanto la vicinanza prossemica è risultata significative: il fatto che il numero di persone sia superiore al numero di posti disponibili, e ci sia quindi affollamento, non è di per sé sufficiente. Serve che ci sia invasione del proprio spazio, intesa qui come numero di persone intorno al soggetto. Se questa condizione si verifica si modificano tutti e tre i parametri considerati: stress, umore (aumento del cortisolo), concentrazione (decremento dell’attenzione autoriferita).
Ecco perché, conclude Evans, non è tanto la dimensione dello spazio la variabile fondamentale della progettazione, quanto il modo in cui le persone tendono a disporsi in base ai vincoli strutturali della vettura/vagone. Creando aree più ristrette (ad esempio due posti e non tre per fila) e aumentando le barriere tra le persone il soggetto si sente meno “oppresso” e riesce a sopportare meglio anche situazioni affollate. Certo costruire spazi del genere non è sempre possibile, come ben sa chi , purtroppo, si trova ogni giorno in mezzo al “traffico umano” dei pendolari.
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foto by Kay84
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