giovedì 31 gennaio 2008

LE TRACCE DELL’ANORESSIA

Chi ha sofferto in passato di anoressia porta ancora nel cervello i segni di quell’esperienza. È quello che mostra uno studio condotto da ricercatori dell’University of Pittsburgh School e pubblicato sull’American Journal of Psychiatry.

Walter H. Kaye, capo dell’equipè, ha analizzato i tracciati mentali di un gruppo di donne anoressiche e li ha confrontati con quelli di un gruppo di controllo composto da donne sane impegnate nel medesimo tempo. I risultati hanno mostrato che esitono differenze significative tra i due gruppi.

Per le rilevazioni è stata utilizzata la risonanza magnetica funzionale (fMRI), mentre veniva osservato lo striato anteriore ventrale, regione cerebrale a capo delle reazioni emotive immediate.
Le 13 donne che avevano superato l’anoressia da 12 mesi hanno mostrato di avere risposte differenti in un compito cognitivo al computer che implicava una riflessione sull’area citata.

In particolare le ex-anoressiche mostrano di non saper distinguere tra strategie vincenti e perdenti e hanno minore reattività, il che spiega almeno in parte come possano raggiungere un livello tanto elevato di deprivazione del cibo e di altri piaceri.

L’anoressia mostra così un nuovo volto che rende ancora più importanti e necessarie sia le campagne di prevenzione nei confronti de giovani, sia il monitoraggio in fase di guarigione.

Fonte: Wagner A, Aizenstein H, Kaye WH et al. Altered Reward Processing in Women Recovered From Anorexia Nervosa. The American Journal of Psychiatry 2007; 164 (12).

Foto by Gettyimages

mercoledì 30 gennaio 2008

SUPERARE GI ESAMI



Esami e verifiche determinano un forte stress per gli studenti. Ecco alcuni consigli per vivere questo periodo di studio in modo sereno ed ottenere buoni risultati.

Gennaio è uno tra i mesi più impegnativi per gli studenti italiani: si incominciano a tirare le somme dei voti per la pagella di metà anno, verifiche per migliorare il rendimento che a volte lo peggiorano, per non parlare degli studenti universitari spesso impegnati in un vero e proprio tour de force tra i vari appelli d’esame.
Come si può vivere questo periodo impegnativo in modo sereno, gestendo in modo efficace lo stress ed ottenere risultati soddisfacenti?

Innanzitutto è necessario acquisire la giusta predisposizione mentale. Approcciarsi alla materia partendo dal presupposto "sono negato, non ci capisco nulla" è sicuramente il modo meno adatto. Lo studio non deve essere considerato come una qualità mentale innata, bensì come una sfida interessante. Pensare di “non essere portato” è una scusa, crea l’alibi per non impegnarsi maggiormente. Alcune materie risultano più facili da studiare, aumentano la curiosità, mentre altre sembrano non motivare: è necessario allora trasformare l’esame in una sfida interessante.
In secondo luogo è necessario porsi un obiettivo realistico, alla propria portata e al contempo ben definito, per non perdersi. Stabilire il numero di pagine da studiare nell’arco della giornata, è un buon modo per suddividere il lavoro in tappe, in modo da raggiungere l’obiettivo gradualmente. La tappa a breve termine consente inoltre un monitoraggio continuo dei propri progressi: a fine giornata è possibile valutare se si è raggiunto il sotto-obiettivo o meno.

Anche i cibi influiscono sullo studio. Durante la preparazione agli esami è consigliabile una dieta ricca di carboidrati, come pane, pasta, e di cibi ricchi di zucchero. Carboidrati e zuccheri infatti, spiega lo psicologo Rob Markus, aumentano la quantità di triptofano, precursore della serotonina, la molecola della felicità di cui tante volte abbiamo parlato. La serotonina è in grado di migliorare le capacità cognitive delle persone sotto stress perché abbassa il livello di ansia.
Non bisogna però esagerare. Un eccesso di zuccheri nel sangue inibisce le funzioni mentali e crea una sorta di dipendenza. Il cibo dolce crea un immediato senso di benessere, che però è di breve durata e che spinge, al termine, a cercare ancora zucchero. Il segreto sta dunque nell’equilibrio.

Infine un ammonimento verso un comportamento molto comune: studiare fino a tardi. Pamela Thacher, psicologa presso la St. Lawrence University, ha condotto una ricerca sulle metodologie di studio, evidenziando che studiare fino a tardi non produce buoni risultati. Dalla ricerca condotta dalla Thacher è emerso un collegamento tra insufficienza di ore di sonno e voti negativi. Dormire meno di otto ore a notte determina reazioni ritardate, tendenza a commettere errori e voti bassi.

Foto by jackhynes

PSYCHO-FLASH: I BAMBINI RICORDANO IL PARTO

Lo psicologo David Chamberlain ha pubblicato il libro “I bambini ricordano la nascita” per raccontare le esperienze e gli studi da lui condotti presso l’APPPAH Association for Pre and Perinatal Psychology and Health.

La ricerca ha raccolto i racconti di genitori e figli che, sotto ipnosi raccontavano il momento della loro nascita. Soprendentemente è emerso che le persone ricordano nettamente il momento del parto con una serie di particolari precisi che spesso sono superiori al ricordo delle madri stesse.

L’autore esiste che ci siano prove scientifiche della veridicità dei resoconti da lui raccolti, ma è bene avere prudenza: i particolari potrebbero dipendere da ricordi successivi e da conversazioni cui si è stati esposti senza per questo nulla togliere al ruolo attivo che viene ormai iconosciuto a neonato da qualunque psicologo.

foto by Ceci Lab

L’AMORE TRA VITA E MORTE

Il mal d’amore non è soltanto un’invenzione romantica: le emozioni sono sistemi pervasivi capaci di influenzare a fondo i meccanismi del nostro corpo. Ecco perché è possibile morire anche per amore, come dimostra una ricerca condotta su uomini e donne rimasti vedovi.

Un gruppo di ricercatori olandesi dell’Università di Utecht hanno pubblicato sulla rivista The Lancet una ricerca, condotta sotto la direzione di Margaret Stroebe, che mostra come il rischio di decesso sia elevato in persone da poco rimaste vedove. Allo stesso modo si rilevano analoghi efetti anche nella fine di una relazione molto importante e nei lutti familiari, dove si venga a perdere il proprio figlio.

I dati mostrano che nel caso di vedovanza il rischio di morte per il partner è cinque volte superiore alla media. I fattori sono di diverso ordine e fanno capo ad un particolare stato mentale dell’individuo. Da un lato si ha un eccesso di stress emotivo dovuto alla perdita e al sentimento di paura e abbandono insieme, dall’altro si tende ad assumere comportamenti a rischio per la salute, primi fra tutti l’eccesso di alcool e fumo.

Il rischio di suicidio, così come i due fattori precedenti, è inversamente proporzionale allo scorrere del tempo: è molto elevato nell’arco dei primi trenta giorni e diminuisce quanto più ci si allontana dalla data dolorosa.

Esistono inoltre differenze di genere nel rischio di mote per amore: le donne hanno una maggiore resistenza rispetto agli uomini con un’incidenza del 17%, contro il 21% degli uomini; i quali registrano anche un numero maggiore di pensieri suicidari.

Foto by naknak79

giovedì 24 gennaio 2008

"BLUE MONDAY"


Il terzo lunedì di gennaio aumentano i pensieri riguardanti il suicidio. La fine delle feste, il conto in banca, il tempo grigio sono tra le ragioni che rendono il “Blue Monday” il giorno più triste dell’anno.

E’ da poco passato il giorno più triste dell’anno, in altre parole, se avete resistito allo scorso lunedì non potete che attendervi dei miglioramenti nella vostra vita, o quanto meno nel vostro umore. Lunedì scorso, il terzo lunedì di gennaio è infatti considerato il giorno più triste dell’anno, il giorno in cui imperversa la depressione. Durante questo giorno, il “Blue Monday” si registra una media generalmente più elevata di suicidi.

Cliff Arnall, professore presso l’Università di Cardiff ha indagato le cause, le motivazioni per cui durante il “Blue Monday” i pensieri suicidi si trasformano più facilmente in atto. Dalle ricerche sono emersi quattro ordini di fattori.
In primo luogo il clima che caratterizza il mese di gennaio. Freddo, cielo grigio e pioggia generalmente non facilitano il buon umore.In secondo luogo il termine delle festività natalizie, che se da molti sono vissute come un periodo molto stressante (leggi il nostro articolo: "Il Natale fa esplodere ansia e depressione"), sono comunque un periodo piacevole, rilassante e divertente.Inoltre l’inizio dell’anno nuovo è spesso accompagnato da una serie di buoni propositi (andare in palestra, iscriversi ad un corso di inglese, smettere di fumare….) che vengono in breve tempo abbandonati, mediamente dopo una settimana: ci si sente impotenti, si guarda criticamente la propria vita, si desidera cambiarla senza fare nulla di concreto. Infine il fattore economico: festeggiamenti, regali e vacanza lasciano un ricordo negativo soprattutto sul conto in banca, che incide negativamente sull’umore.
Inoltre il lunedì è per lo più vissuto negativamente: riprendere il lavoro dopo il weekend di relax. Alcuni studi hanno dimostrato che durante la notte di domenica si perde almeno un’ora di sonno, pensando che il giorno dopo si deve tornare a lavorare!

Per sopravvivere a questo terribile lunedì, Arnall consiglia: <>.


foto by Astrid Walter

lunedì 21 gennaio 2008

VIOLENZA AL RITORNO DALLA GUERRA


Numerosi marines al ritorno dalle missioni diventano violenti con i propri famigliari. Il New York Times ha condotto un’inchiesta sui numerosi crimini in cui sono coinvolti i soldati al ritorno da Iraq ed Afghanistan.

La guerra è un evento fortemente traumatico e stressante per coloro che la vivono, sia per i civili, sia per i soldati. Le guerre che ha visto coinvolti gli Stati Uniti in questi ultimi anni mostrano chiaramente i danni psicologici provocati da un conflitto. Emerge che al ritorno dal fronte, molti marines mostrano comportamenti violenti, spesso nei confronti dei propri famigliari, mogli, fidanzate e figli uccisi durante le liti o a seguito di omicidi premeditati.

L’ampiezza di questo fenomeno ha indotto il celebre New York Times a condurre un’inchiesta sui veterani coinvolti in crimini. Sono stati rilevati 121 casi in cui veterani rientrati dall’Afghanistan e dall’Iraq, che hanno ucciso o che sono formalmente accusati di omicidio. In circa un’ottantina di omicidi (2/3 dei casi) le vittime sono famigliari degli ex-soldati, in particolare mogli o fidanzate. Questi casi includono sparatorie (in casa, in strada o in locali pubblici), accoltellamenti, annegamenti forzati nella vasca da bagno di casa, strangolamenti e incidenti stradali causati da un eccesso d’alcool (25 casi).
Questi dati sono stati raccolti partendo da giornali locali, rapporti di polizia, documenti ufficiai ed interviste alle famiglie, avvocati ed ufficiali.

Sembrerebbe che, una volta tornati dalla guerra, gli ex-soldati non riescano ad abbandonare i comportamenti violenti, a smettere di uccidere. Il fenomeno è definito “violenza da ritorno”, ed è già conosciuto negli stati Uniti, anche se a seguito delle recenti campagne in Afghanistan ed Iraq è aumentato dell’89%. Un aspetto preoccupante è il disinteresse per la questione mostrata da Pentagono e Dipartimento di Giustizia, che non monitora il fenomeno e che non rispondono alle domande poste dall’autorevole New York times.

Foto by Gy7ras

SOMMARIO DELLA SETTIMANA


Questa settimana ci siamo occupati di....


... resilienza: reagire alle situazioni difficili e stressanti della vita, considerandole come limitate nel tempo e superabili. La resilienza consiste proprio in questa capacità di coping, che può essere migliorata con alcuni esercizi.


...coscienza: un'insolita applicazione della meccanica quantistica, che ha tentato di spiegare i segreti della coscienza paragonandone il funzionamento con quello delle particelle subatomiche.


...neuropsicologia cognitiva sociale: considerare l'uomo all'interno delle relazioni interpersonale è l'obiettivo di questa nuova area della psicologia, che annovera già ricerche importanti al suo interno, a partire dai neuroni mirror.


foto by jerryreynolds

mercoledì 16 gennaio 2008

NEUROPSICOLOGIA SOCIALE COGNITIVA







L’uomo è sempre avvolto da relazioni sociali che ne modificano il comportamento e che, ne ha plasmato le funzioni cerebrali nel corso dell’evoluzione. La neuropsicologia sociale cognitiva analizza i comportamenti sociali dal punto di vista interattivo, sociale e cognitivo.

L’uomo non è un’entità isolata ma inserito in una rete di relazioni sociali che influenza, e da cui è influenzato. All’interno delle relazioni sociali si sviluppano processi interattivi, caratterizzati da meccanismi di adattamento reciproco. Dal punto di vista psicologico l’uomo, con i suoi processi comunicativi e cognitivi, non può essere studiato mantenendo il focus sul singolo, ma deve essere considerato all’interno del network sociale. Partendo da queste considerazioni sono stati indagati i processi interattivi che si sviluppano tra le persone all’interno degli scambi interpersonali.

Si è così aperto un vero e proprio nuovo campo d’indagine che integra gli apporti della psicologia sociale, della psicologia cognitiva e delle neuroscienze. Questa nuova disciplina che ricerca i legami che intercorrono tra mente, corpo e comportamento, analizzando in che modo le interazioni sociali influiscano sulle abilità cognitive e sul funzionamento cerebrale e fisiologico, è stata chiamata agli inizi degli anni ’90 da Cacioppo e Berntson ‘neuroscienza sociale’, denominazione successivamente ampliata in ‘neuroscienza sociale cognitiva’.

La neuroscienza sociale cognitiva si propone di analizzare i fenomeni su tre livelli di analisi: livello sociale, che riguarda le motivazioni e i fattori sociali che influenzano i comportanti; il livello cognitivo, come meccanismo di elaborazione delle informazioni; ed il livello neurale sui meccanismi cerebrali alla base dei processi cognitivi. I campi d’indagine della neuroscienza sociale cognitiva riguardano le abilità sociali fondamentali, tra cui studi sulla percezione delle altre persone, come la capacità di riconoscere le emozioni altrui e di individuare segnali sociali, attraverso l’osservazioni di gesti e movimenti, nonché l’importante tema della teoria della mente.
L’ipotesi alla base è che l’uomo sia predisposto all’analisi delle interazioni sociali, possieda una sorta di “cervello sociale”, che gli permette di analizzare le molteplici informazioni che entrano in gioco durante le interazioni.

Le ricerche e i conseguenti risultati emersi in quest’ambito d’indagine sono molteplici, primi tra tutti i neuroni mirror, neuroni alla base della capacità d’imitazione, di cui si sente spesso parlare. L’acquisizione fondamentale, ottenuta con quest’area della disciplina sembra essere soprattutto la possibilità di indagare i fenomeni sotto più livelli contemporaneamente.




foto by brewbooks

martedì 15 gennaio 2008

MECCANICA QUANTISTICA SVELA I SEGRETI DELLA COSCIENZA


Come si comporta la coscienza di fronte ad un’immagine ambigua? Efrastios Manousakis ha analizzato gli stati di coscienza applicando le regole della meccanica quantistica e raggiungendo risultati interessanti.

La meccanica quantistica è un complesso di teorie fisiche che descrivono il comportamento della materia a livello microscopico e subatomico. Nonostante la sua incredibile distanza con la psicologia, questa disciplina è stata applicata con risultati interessanti allo studio di un concetto fondamentale, e a tutt’oggi oggetto di studio, della psicologia: la coscienza.

Efrastios Manousakis, ricercatore presso l’Università della Florida, ha applicato le teorie della meccanica quantistica alla coscienza, riuscendo così ad elaborarne un modello descrittivo.
Lo studio è partito dall’analisi dei processi neurali coinvolti nell’osservazione di immagini ambigue.
L’immagine ambigua, come il famoso “vaso di Rubin” raffigurato nell’immagine soprastante, presenta una doppia immagine, due volti di profilo neri e una coppa bianca. Nel momento in cui riusciamo a vederne uno, non riusciamo a vedere l’altro. Il cervello infatti compie dei salti d’immagine, poiché non riesce a comprenderle contemporaneamente.

Manousakis ha studiato tali salti d’immagine registrando il tempo intercorrente tra i salti e monitorando i processi cerebrali attraverso la risonanza magnetica.
Dai risultati è emerso che durante questo tipo di compito si osservano comportamenti assimilabili al comportamento quantistico della particella. Secondo la teoria quantistica, una particella non ha proprietà definite, ma se viene osservata può trovarsi in uno stato ed immediatamente dopo in uno stato anche contraddittorio.

Manousakis ne ha tratto un modello: la coscienza si può trovare in due stati cerebrali diversi, “coscienza potenziale” e la “coscienza reale”. Il primo stato, la “coscienza potenziale” è il momento in cui il cervello riceve entrambe le immagini contemporaneamente, rappresenta il nostro incoscio, in cui possono essere presenti anche immagini assurde. La “coscienza reale”, al contrario, si ha quando il cervello percepisce una delle due immagini.
I risultati raggiunti da questo studio lascia alcuni neuroscienziati scettici. Tuttavia è interessante evidenziare l’applicazione di quest’area della fisica al comportamento umano.

lunedì 14 gennaio 2008

RESILIENZA CONTRO LO STRESS


Reagire allo stress in modo positivo: questione di resilienza. Pietro Trabucchi insegna un metodo per migliorare le capacità di superare i momenti difficili.

Le persone reagiscono agli eventi stressanti in modi differenti. Non tutti infatti sono in grado di affrontare le difficoltà della vita in modo positivo, ma vivono i momenti complessi della vita senza riuscire a rispondere ad essi in modo adeguati. Queste persone vengono sopraffatte dalle situazioni che sfuggono al loro controllo a causa del basso livello di resilienza.

La resilienza è una capacità, acquistata nel corso dell’evoluzione dell’uomo, che rende la persona in grado di gestire lo stress senza farsi travolgere, è la capacità di resistere psicologicamente. Il termine deriva dal latino resilio che significa anche il tentativo di risalire su di una barca rovesciata.
La persona resiliente è una persona motivata a raggiungere i propri obiettivi. Che legge le situazioni difficili come limite nel tempo e che non si lascia sopraffare da esse. Sente una forte capacità di controllo sulla propria vita. Traendo vantaggi dai cambiamenti e non bloccandosi di fronte alle sconfitte. Il concetto di resilienza è conosciuto anche nell’ambito della ‘Psicologia dello sviluppo’, in cui indica un esito positivo, un corretto raggiungimento dei compiti di sviluppo nonostante la presenza di condizioni di difficoltà.

Secondo una ricerca americana la resilienza è strettamente legata alla genetica. Hanno infatti evidenziato la presenza maggiore della proteina BDNF nel cervello ‘non-resiliente’. Questo significherebbe che il comportamento resiliente dipenderebbe dai geni che regolano l’attività biochimica di alcune aree cerebrali.
Pietro Trabucchi critica la ricerca, mettendone in evidenza il limite forse più vistoso: la ricerca è stata infatti condotta su dei topolini, mentre il cervello umano è molto più complesso. Pietro Trabucchi, docente di Coaching e di Psicologia dello Sport presso l’Università di Verona, ritiene che sia possibile aumentare il livello di resilienza. Trabucchi ha messo a punto specifici percorsi che aumentino il senso di controllo ed esercizi per superare le difficoltà. I suoi training sono applicati ora alla nazionale di sci in preparazione delle olimpiadi invernali di Vancouver 2010. Vedremo se con risultato!

Per chi vuole saperne di più consulti il sito di Pietro Trabucchi

Foto by Tooley

SOMMARIO DELLA SETTIMANA


Questa settimana ci siamo occupati di...


foto by mark_66it

venerdì 11 gennaio 2008

IL TERMINE DELLA PSICOTERAPIA


L’esito positivo o negativo di una psicoterapia è legata anche al momento finale. Su tre riviste di psicoterapie, 'Bulletin of the Menninger Clinic', 'The Journal of the American Academy of Psychoanalysis & Dynamic Psychiatry' e 'Psychology and psychotherapy: Theory, research and practice', è stata pubblicata una ricerca che ha calcolato che nel 60% dei casi le terapie terminano troppo presto o troppo tardi.

Elemento spesso sottovalutato, ma di importanza radicale per il buon risultato della terapia psicologia è la durata della stessa. Infatti la durata della terapia dovrebbe essere stabilita fin dall’inizio delle sedute, naturalmente prevedendo margini di flessibilità. L’interruzione della terapia è un momento saliente, in cui si tirano i fili del percorso compiuto tra paziente e terapeuta, e dove il terapeuta deve aiutare il paziente a superare le difficoltà della separazione passando e sentimenti positivi. Troppo spesso tuttavia le terapia si interrompono in modo troppo frettoloso, o contrariamente vengono prolungate eccessivamente.

Un team delle università di Bar Ilan e di Tel Aviv ha valutato i sentimenti dei pazienti al termine della psicoterapia. Lo studio ha indagato le emozioni sperimentate da 82 pazienti al termine di una psicoterapia di durata dai 6 mesi ai 2 anni, partendo dal presupposto che il momento della fine della terapia è di importanza cruciale.
Dallo studio emerge che la terapia è stata interrotta troppo presto per il 37% dei pazienti. In questi casi l’interruzione precoce è stata causata dai troppi soldi spesi, nel 34,5% dei casi, o per le incomprensioni con lo psicoterapeuta.
Per il 23% dei pazienti, al contrario, la terapia è durata troppo a lungo, generando sentimenti di insoddisfazione e sfiducia nei confronti dello psicologo (26,3%).

La fine inopportuna della terapia sembra essere un fenomeno troppo frequente, circa il 60%. Laddove il paziente è scontento del termine del proprio percorso psicoterapeutico, non si può ritenere che la psicoterapia risulti compiuta. David Roe, direttore del dipartimento di Community Mental Healt della facoltà di Social Welfare e Health Sciences dell’università di Haifa, che ha partecipato allo studio, conclude: “E’ un momento della terapia estremamente importante, dove è fondamentale riuscire a concettualizzare la figura del terapeuta e il lavoro fatto insieme”. Lo studio ha infatti messo in luce che i pazienti che ritenevano appropriato il momento del distacco risultavano più soddisfatte.

Foto by la-Cour

mercoledì 9 gennaio 2008

SIGARETTE E SUICIDI


Una ricerca del Max Planck Insitute of Psychiatry di Monaco ha evidenziato il legame tra fumo e suicidio, causato dell’abbassamento dei livelli della ‘molecola della felicità’ nel cervello dei fumatori.

Ancora cattive notizie per i fumatori. Dopo i soliti rincari delle sigarette, essere stati ‘cacciati’ locali pubblici, essere terrorizzati ad ogni sigaretta dalle minacciose frasi riportate sui pacchetti, ‘Il fumo uccide’, per coloro che nonostante tutto continuano a cedere al vizio della sigaretta, ancora una ricerca che mette in allerta sui rischi associati al fumo.

I ricercatori del Max Planck Insitute of Psychiatry di Monaco, hanno evidenziato un pericoloso legame tra il vizio del fumo e il rischio di suicidio. La ricerca, pubblicata sul ‘Journal of Affective Disorder’ si è servita dei dati una più ampia ricerca, condotta su 3.021 giovani tra i 14 e 24 anni, tutti residenti a Monaco di Baviera, intervistati una prima volta nel 1995 e in un secondo tempo nel 1999.
Il numero di fumatori che avevano avuto pensieri suicidi nel corso di due settimane comprendeva circa il 30 % degli intervistati, il doppio rispetto ai non fumatori. Infatti i non fumatori che riferivano di avere avuto pensieri di tal genere era del 15%, mentre tra i fumatori occasionali del 20%.

I dati sono da considerarsi ‘puliti’, in quanto i ricercatori hanno sottratto l’influenza di fattori che potrebbero influenzare i pensieri suicidiari come droghe e alcool. Per quanto riguarda i passaggi all’atto, ovvero la percentuale di coloro che avevano anche tentato il suicidio, anche in questo caso le percentuali confermano l’ipotesi. Infatti tra i fumatori si registrano il 6,4% dei tentativi di suicidio, mentre tra i non fumatori lo 0,6%.

I ricercatori hanno spiegato il fenomeno dalla diminuzione del livello di serotonina, la cosiddetta ‘molecola della felicità’, nel cervello dei fumatori.

Foto by pawel

BASSA AUTOSTIMA AMENTA IL RISCHIO DI OBESITA'


Avere poca considerazione di sé, ritenersi poco apprezzati degli altri aumenta le possibilità di diventare obesi. I dati di una ricerca condotta dal Dipartimento della Sanità di New York mostra uno stretto legame tra bassa autostima e aumento di peso nelle ragazze adolescenti.

L’obesità è un disturbo alimentare che riguarda una larga fetta della popolazione occidentale. Se in Italia la situazione sembra ancora essere sottocontrollo, è necessario tenere alta la guardia, in particolare per quei casi che si manifestano già nell’età dello sviluppo. Essere obesi nell’infanzia o nell’adolescenza ha infatti serie ricadute fisiche, che potrebbero compromettere il benessere fisico e psicologico nell’età adulta. Negli Stati Uniti l’obesità è un problema largamente diffuso, a cui si cercano cure e soprattutto cause da alcuni anni.

Il dipartimento per la salute di New York ha condotto una ricerca su di un campione di 4400 ragazze adolescenti tra i 12 e i 18 anni. Alle ragazze è stato sottoposto un questionario per verificare il loro livello di autostima, in cui una delle domande fondamentali richiedeva di valutare il proprio livello di apprezzamento sociale, in altre parole quanto ritenevano di piacere agli altri, su di una scala da 1 a 10. L’indice ottenuto è stato correlato al peso corporeo delle ragazze osservando la differenza di peso a distanza di due anni.
Dai dati ottenuti è emersa una correlazione tra l’autostima e il peso corporeo: le ragazze che si ritengono poco apprezzate dagli altri hanno una probabilità maggiore di ingrassare. In particolare, chi ha indicato, nella scala sopra citata, una valore pari o inferiore a 4, ha il 69% di possibilità di ingrassare rispetto a chi mostra livelli di autostima maggiori.

Questa ricerca, pubblicata sugli ‘Archivi di Medicina Pediatrica e dell’Adolescenza’, ipotizza dunque, una consequenzialità diretta tra autostima e peso corporeo. Questi risultati sottolineano l’importanza di terapie che agiscano sull’autostima e sull’autoefficacia nella cura dei disturbi alimentari degli adolescenti.
Se da un lato lo stretto legame tra fattori psicologici, sociali ed emotivi e i disturbi alimentare, in particolare nel periodo adolescenziale, è opinione già condivisa, la consequenzialità diretta tra scarsa autostima ed obesità può risultare una forzatura. In che misura è la scarsa autostima a determinare l’obesità, oppure è il peso eccessivo ad abbassare l’autostima?

Foto by Bedtime Champ

martedì 8 gennaio 2008

BRAIN TRAINING: MIGLIORA DAVVERO LE CAPACITA’ COGNITIVE?


Il videogioco ‘Brain Trining’ del dottor Kawashima promette miglioramenti delle capacità cognitive, un vero e proprio ringiovanimento del cervello. Molti esperti di attività cognitive mostrano tuttavia delle perplessità. In questo articolo cercheremo di far chiarezza al riguardo.

Il Brain Training è un gioco elettronico che negli ultimi mesi sta vivendo un’incredibile esplosione di popolarità grazie all’attenta campagna pubblicitaria della Nintendo, azienda che produce il videogioco. Il videogioco si propone di migliorare le capacità cognitive attraverso la risoluzione di quiz, enigmi e esercizi mnemonici. La tesi alla base è che allenare il cervello attraverso il gioco permetta di ottenere risultati migliori e conseguentemente di potenziare le proprie capacità cognitive. OltreFreud si era già occupata di questo interessante videogioco nell’articolo ‘Videogiochi anti-aging’, che vi invitiamo a leggere.

Leggere, giocare a scacchi o dama, pensare o avere un hobby sono tutte attività che consentono di tenere allenato il cervello. Recenti ricerche hanno infatti dimostrato che il cervello è in grado di rigenerarsi, generando nuovi neuroni o nuovi collegamenti (sinapsi neuronali), grazie all’allenamento. Inoltre è stato scoperto che un hobby rallenta il declino mentale nel caso dell’insorgere dell’Alzheimer.

Il nocciolo della questione sta dunque nel fatto che attraverso l’esclusivo utilizzo del Brain Training sia possibile aumentare le capacità cognitive. Il videogioco, infatti, sembra non essere sufficiente. Per meglio chiarire, utilizziamo una felice metafora dello Psichiatra Pietro Pietrini apparsa sulla rivista Newton “sarebbe come credere che basti mezz’ora di cyclette al giorno per avere un corpo allenato, passando il resto del tempo sul divano”.
Kawashima sostiene l’efficacia del suo metodo di allenamento, affermando che le persone anziane possano trarne un grosso beneficio e supportando queste affermazioni sulla base dei risultati delle sue ricerche. I benefici prodotti sono però ancora da testare ulteriormente dal punto di vista scientifico e si esclude che l’utilizzo del Brain Training possa risultare pericoloso.

Micheal Marisiske, esperto di attività cognitive dell’Università della Florida, evidenzia un'altra problematica. Infatti, al di là che attraverso un uso continuativo del videogioco si possano ottenere performance migliori, Marsiske si chiede in che modo tali miglioramenti, che come ricordiamo riguardano giochini e quiz, possano tradursi nelle funzioni della vita reale. Per un anziano sembra infatti essere ancora più utile, nell’ottica dell’allenamento mentale, un coinvolgimento nella vita relazionale e sociale.

Foto by LordBiro

lunedì 7 gennaio 2008

DISTURBI PSICOLOGICI: LA SITUAZIONE ITALIANA


L’Aupi lancia l’allarme sulla situazione dei disturbi psicologici in Italia: i dati mostrano un significativo aumento dell’incidenza e una sostanziale diminuzione dell’età della comparsa.

I disturbi psicologici affliggono un numero sempre maggiore di Italiani. I dati sono stati pubblicati dall’Associazione Unitaria Psicologi Italiani (Aupi) e mostrano una crescita esponenziale del numero di persone afflitte da disturbi psicologici, con una sensibile diminuzione dell’età d’insorgenza, che ora risulta essere al di sotto dei 20 anni.
I disturbi psicologici che hanno maggiore incidenza sono i disturbi di personalità, con un tasso pari al 53.2, in secondo luogo i disturbi dell’umore, come la depressione, con una percentuale del 21.3%, e i disturbi d’ansia (19,1%).
Le condizioni economiche e occupazionali sono una variabile molto importante, in quanto emerge che la metà delle persone con disturbi psicologici sono lavoratori, mentre i disoccupati sono il 34%.

I risultati sono dunque allarmanti e necessitano di attenzione nell’ottica di interventi di prevenzione. Vito Tummino, Responsabile dell'Unità Operativa di Psicologia dell’Azienda Ospedaliera S.Anna di Como e componente della Segreteria dell’Aupi, sottolinea l’importanza dell’opera di prevenzione e di un tempestivo intervento psicologico, che rendano in grado l’individuo di fronteggiare le difficoltà e gli stress della vita.


foto by diavolina82

"EFFETTO VIVALDI"


L’ascolto di brani del compositore veneziano sembra avere effetti positivi su alcune funzionalità cerebrali, in particolare sugli anziani, come dimostrano gli studi di Mammarella.

L’ascolto della musica influisce positivamente su alcune funzioni cerebrali, come memoria e apprendimento. Dagli anni ’90 si ritiene infatti che l’ascolto della musica determini un temporaneo aumento delle abilità spaziali, in base ai risultati ottenuti da una ricerca condotta da Gordon Shaw e Frances Rauscher che prevedeva l’ascolto della ‘Sonata in Re maggiore’ di Mozart. Dal 1993 queste potenzialità sono conosciute come ‘Effetto Mozart’. Recentemente è stata anche messa in luce l’influenza positiva della musica sulle capacità verbali.

La rivista internazionale ‘Aging Clinical and Experimental Research’ ha pubblicato una ricerca condotta presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti diretto da Nicola Mammarella, che ha indagato l’influenza della musica sugli anziani. Lo studio ha coinvolto 24 individui anziani, sottoposti all’ascolto di un brano tratto da “Le quattro stagioni” di Vivaldi ed in seguito da alcuni test mnemonici.

Dai risultati emerge performance mnemoniche migliori in seguito all’ascolto di Vivaldi rispetto al semplice silenzio o al rumore. Questi risultati, definiti “effetto Vivaldi, sono stati spiegati dai ricercatori dovuti all’aumento di vigilanza e d’attenzione determinati dall’ascolto della musica.


Recentemente abbiamo descritto il legame tra musica e linguaggio nell'articolo "Musica e linguaggio"


foto by pickstaiger