sabato 27 gennaio 2007

SOMMARIO DELLA SETTIMANA

Un’altra settimana di notizie psicologiche si è svolta con numerosi interventi e numerose pubblicazioni.
L’interesse per la psicoanalisi, disciplina che ormai pare superato definire giovane, vista la vastità dei contributi e la sua perenne attività, continua a crescere; ma come per ogni “personaggio” che diventi famoso, si insinuano le critiche.
Ci sono allora quaranta autori che, in un attacco ampio, articolato, ma spesso poco fondato, accusano la corrente tutta: teorie freudiane troppo verificazioniste, successi inesistenti e guarigioni fasulle. Forse un po’ troppo, per chi sa che Freud e i successori, come teorici, commettono gli stessi errori di chiunque affermi una nuova teoria. La vera sfida è leggere il libro, per controbattere in modo intelligente.

Sempre i bias cognitivi, d’altro canto, ci portano a fare errori che , normali per la vita quotidiana, si trasformano in patologie o ardue e pericolose decisioni politiche.

I disturbi alimentari sono sempre presenti nelle nostre rubriche, stavolta però dal punto di vista cognitivo: è la percezione mentale di sé e la valutazione che se ne dà a spingere a comportamenti deprivanti. In particolare un eccesso di zelo che mina il sano narcisismo umano.

Il tema della guerra, tra interventi e basi militari, è stato il più inflazionato degli ultimi giorni e una ricerca psicologica ha voluto indagare le motivazioni sottese alle decisioni politico-belliche.
Nulla di diverso da una lite tra moglie e marito e nulla di eccezionale rispetto agli errori di valutazione e dai meccanismi instaurati da una competizione. Il cervello ha le sue strategie e le sue carenze e il loro studio riesce a spiegare perché talvolta si giunga a scelte svantaggiose o di pericolo.

Certo, molti errori verrebbero evitati se l’uomo fosse in grado di prevedere il futuro, e questa è un’ambiziosa ricerca svolta da Szpunar. La capacità umana di mentalizzazione infatti sarebbe in grado di spiegare i collegamenti e le previsioni che talvolta insorgono. Ricerche e collegamenti sul sesto senso si sono già avute, ma ora la tecnica neuropsicologica mostra come tra aree delle memoria autobiografica e aree di ipotizzazione sul futuro esistano collegamenti funzionali.

E infine un week-end ricco di conferenze e di incontri: in primis il tema della maternità, con i suoi connotati psicologici, che abbiamo tarttato preventivamente ma anche altri. Per saperne di più basta un click sulla sezione Contemporanea-mente.

foto by fonta

venerdì 26 gennaio 2007

CHILDFREE: DIRITTO O PAURA?

Il tema della crescita della popolazione è finora stato di pertinenza politica, col fine di evitare da una lato il sovraffollamento e la mancanza di cure-risorse, e di scongiurare dall’altro la crescita zero per la sopravvivenza del Paese. Tuttavia dietro i numeri italiani si nasconde una complessa sfera psicologica, legata a vicende personali e sociali, che sono ora oggetto di analisi del primo Convegno Nazionale promosso dall’Università di Padova per i giorni 26 e 27 gennaio. La mancanza di figli sembra essere una tendenza attuale che nasconde difficoltà e paure della famiglia italiana.

Il movimento del Childfree è un’insieme composito di volontà che per motivi diversi fa della scelta o della impossibilità di fare figli un cavallo di battaglia. Nella società italiana si parla di famiglia in senso pieno nel caso di una coppia sposata con figli, anche se la media di figli per le madri nazionali è di 1, 33 , un limite inferiore a quello auspicabile per ragioni di esistenza politica (2,1).

Negli anni 70 le coppie senza figli per motivi di infertilità ricevevano l’etichetta negativa di “childless”, connotazione che non si è andata perdendo negli anni del boom professionale delle donne. La prole è diventata un problema per la carriera e si è parlato di diadi “snaturate”, i Dual Income No Kids.
La rinuncia, imposta o voluta, diventa ora scelta, anzi diritto di scelta. Ma se i diritti si fondano su logiche e valori, il rovescio della medaglia di questa richiesta sembra vacillare e porsi più sotto il concetto di paura che non sotto quello di libertà.

Quali sono le motivazioni psicologiche sottese? Il Convegno vuole indagarle, anche grazie al confronto con altre realtà europee, ma esistono già delle ipotesi. Innanzitutto ci sono due matrici: l’una di interesse personale-egoistico e l’altra invece di riflessione sociale-altruistica.
Dal lato egoistico troviamo:

  • la necessità di stabilire e mantenere una relazione più intima con il partner, dal punto di vista emotivo e fisico;
  • una maggiore disponibilità economica;
  • la possibilità di riprogettare la propria vita in qualunque momento, con un orizzonte vasto di possibilità.

Dal lato sociale invece:

  • il disappunto verso la costante crescita della popolazione mondiale a fronte di risorse insufficienti;
  • il timore di mancanza di responsabilità o incapacità educative che portino ad una prole immorale e asociale.

In generale è il timore della condizione di genitore a inibire i nuovi adulti, quella generazione di trentenni o poco più che già viene accusata di peterpanismo.
Se da un lato il parere dell’autrice mostra una certa inflessione di stizza nei confronti di questa paura della responsabilità verso se stessi, a fronte magari di impieghi con grandi responsabilità esterne; dall’altro si ritiene che si tratti di un fenomeno preoccupante. Sono i nuovi ritmi societari, l’allungamento della fase giovanile-adolescenziale anche nell’adultità, che promuovono un pensiero all’indietro. Le possibilità economiche e culturali aumentate spingono forse le persone a rimandare le scelte in una speranza di immortalità perenne, in barba ai tempi fisiologici, o hanno modificato il modello da raggiungere, escludendo la componente figli? Ipotesi plausibili, ma agghiaccianti che solo i risultati di questo congresso e altri lavori sul tema potranno sciogliere.

foto by luskydiamond

martedì 23 gennaio 2007

IMMAGINE CORPOREA NEI DISTURBI ALIMENTARI: TROPPO “REALISTICA”

Presso il Dipartimento di Psicologia Sperimentale dell'Università di Maastricht, la psicologa Anita Jansen e i suoi colleghi hanno condotto uno studio sull’immagine corporea percepita da persone sane e da donne affette da disturbi dell’alimentazione (anoressiche e bulimiche).
I risultati hanno mostrato che queste ultime sono altamente realiste nel valutare i propri pregi e difetti, e non possiedono invece una distorsione positiva che tutte le donne mostrerebbero nei confronti della propria immagine.
Nello studio pare ci siano stati distinguo metodologici confusi, ma che aprono la via a nuove ricerche.

Svolgimento: l’esperimento prevede che tutte le donne partecipanti giudichino, tramite un’istantanea, quali siano le parti del loro corpo che reputano migliori o peggiori. In seguito le stesse foto (ma private della faccia) vengono esaminate da due giurie composte ad hoc di altri soggetti. Nel caso delle donne con disturbi alimentari, le loro considerazioni e quelle degli esperti convergevano maggiormente rispetto alle donne sane.

La spiegazione risiede nel fatto che normalmente tendiamo ad applicare al nostro corpo una distorsione in positivo, per percepirci piacevoli per gli altri, mentre in caso di alterazioni alimentari insorgerebbe uno spietato senso critico (iper-realismo), il quale potrebbe essere la causa di deprivazioni alimentari e estenuante esercizio fisico.

Problemi: lo studio sembra aver confuso il concetto di bellezza (tra l’altro di difficilissima definizione) e invece il costrutto dell’identità. L’identità corporea va ben oltre l’apparenza fisica per investire la ruota emotiva, relazionale e sociale.
Le pazienti affette da sindromi legate al cibo, comprese quelle dello studio, soffrono infatti di disturbi nella sfera identitaria, e il forte legame che vivono tra corpo fisico-identità interiore è un sintomo principale ma non esclusivo.

In sintesi, a parere dell’autrice, la percezione esteriore di sé ha senso solo se confrontata (statisticamente) con altri indicatori del comportamento e della cognizione generale delle pazienti. Questo studio è riportabile entro l’arco delle ricerche che dimostrano come l’autostima di tali soggetti sia bassa, autostima che li porta a volersi migliorare a ogni costo. Sarebbero facili numerose altre conclusioni, ma in un campo così delicato, si ritiene che sia opportuno parlare solo con dati alla mano e poi, come nel caso di questo studio, riflettere sui risultati e proseguire a testare.
foto by debora972

domenica 21 gennaio 2007

L'INTERVENTISMO E' SPESSO UN ERRORE DI VALUTAZIONE


Che cosa spinge un governo a prendere parte ad un conflitto? E’ quanto cercano di spiegare Daniel Kanheman e Jonathan Renshon, che riconducono la scelta dell’interventismo a numerosi errori cognitivi, in cui incorriamo nella vita quotidiana e anche nel caso di decisioni più rischiose come quella di entrare in guerra.

In un mondo sempre in tensione, dove ancora esplodono troppi conflitti, i due illustri autori Daniel Kahneman, premio Nobel, e Jonathan Renshon, ricercatore presso il Department of Government della Harvard University e autore del libro "Why Leaders Choose War: The Psychology of Prevention", spiegano come spesso la mente umana di fronte a situazioni critiche incappi in bias (errori) cognitivi.
L’articolo, apparso su Foreign Policy, parte dalla teoria del “gioco del falco e della colomba”, che rende conto delle possibilità inerenti a tutte le forme di competizione, in cui sono presenti due concorrenti entrambi all’oscuro della mossa altrui. Questa è infatti una situazione che rispecchia appieno il caso dell’entrata in un conflitto. Tra i membri del governo si profileranno due fazioni. Da una parte ci saranno i falchi, che proporranno azioni coercitive, anche attraverso l’uso della forza militare. Dall’altra parte le colombe, più scettiche sull’utilità dell’uso della forza e più propense ad affidarsi alla diplomazia e al dialogo. In un dibattito, le motivazioni “da falchi” saranno ritenute più valide, e quindi faranno propendere verso una decisione interventista a causa di bias cognitivi, propri della mente umana.


Psicologi sociali e cognitivi hanno identificato una serie di distorsioni cognitive prevedibili, che si verificano quando le persone valutano pro e contro di una scelta.
Sono errori che tendono a sovrastimare le proprie capacità, o che fanno valutare più negativamente l’avversario,e che intervengono anche in situazioni di un conflitto potenziale. Dopo quarant’anni di ricerche, la maggior parte dei biases elencati tende infatti a favorire i falchi.


Tra i più comuni è l’”errore di attribuzione fondamentale”, che porta a valutare le intenzioni altrui senza prendere in considerazioni le informazioni contestuali, di cui siamo a conoscenza. Sull’orlo di una guerra, anche un governo tenderà a percepire come ostile il comportamento dei rappresentanti del paese straniero, anche se fosse consapevole che quel comportamento potrebbe essere motivato dalle circostanze. Al contrario però, lo stesso comportamento avuto dai nemici e classificato come molto ostile, sarà spiegato come dovuto alle circostanze se compiuto dal governo in questione. E’ ciò che avviene quotidianamente nei litigi tra moglie e marito: quando parliamo di noi stessi teniamo fortemente in considerazione il contesto, che utilizzeremo per giustificarci. Questa tendenza è potenzialmente più dannosa nei casi in cui c’è una scarsa comunicazione tra le parti.

Molto significativa è anche la distorsione che ci porta ad essere eccessivamente positivi nei confronti di noi stessi. Da molteplici ricerche, risulta che la maggior parte delle persone si ritiene più scaltra, attraente e con talento rispetto alla media, credenze che le porta a sovrastimare il loro futuro successo. E’ anche definibile come “illusione di controllo”, ed è ciò che ha probabilmente portato la gran parte degli uomini politici americani a sottovalutare i rischi della campagna in Iraq. Nel caso di un conflitto militare, questo bias porterà a sovrastimare le probabilità di un esito positivo della guerra.

Inoltre di fronte ad una proposta della controparte, tenderemo a sottostimarla e a percepirla come ostile. E’ il meccanismo della “svalutazione reattiva”, forse la più indicata per descrivere il rapporto tra U.S.A. e il governo di Teheran.
Infine ricordo anche “l’avversione alla perdita”. La maggior parte delle persone tende a evitare una perdita certa rispetto ad una perdita potenziale, sebbene questa possa significare perdere di meno. Per chiarire il concetto gli autori propongono un esempio. Ad un soggetto viene chiesto di scegliere tra due opzioni:
perdere 890 €
90% di possibilità di perdere 1000 € e 10% di possibilità di non perdere nulla.
In questqa situazione la maggior parte dei giocatori sceglierà l’opzione b. ponendo questo esempio all’interno di un conflitto, si spiega perché molti governi preferiscano portare avanti la guerra piuttosto che arrendersi di fronte ad una perdita sicura.

Gli autori sottolineano, dunque, come in casi in cui sono veramente in gioco delle vite, troppo è legato ad errori di valutazione. Sebbene tali errori siano “specificamente” umani, la conoscenza dei loro meccanismi dovrebbe aiutarci a riflettere più accuratamente, per evitare guerre che non possono che portare morti.

sabato 20 gennaio 2007

IL CERVELLO PUO' PREDIRE IL FUTURO


Il nostro cervello è in grado di prevedere il futuro e di prefigurare eventi, grazie ad un insieme di circuiti neuronali. E’ la scoperta recentemente pubblicata sulla rivista dell'Accademia Americana delle Scienze (PNAS) da Karl Szpunar, secondo cui quando immaginiamo noi stessi prendere parte a un evento futuro, utilizziamo le stesse aree del cervello coinvolte nel ricordo di eventi passati.

Sul primo numero della rivista dell’Accademia Americana delle Scienze (articolo disponibile anche on-line), Karl Szpunar, a capo di un gruppo di ricercatori del Department of Psychology presso la Washington University di St.Louis, ha pubblicato i risultati dello studio sulla capacità di immaginare eventi non ancora accaduti, problema ancora poco studiato dalle neuroscienze. “Nella nostra vita quotidiana, probabilmente impieghiamo più tempo a pensare cosa faremo domani o più tardi nella stessa giornata, che a ricordare il passato, ma non è ancora chiaro come riusciamo a creare queste rappresentazioni mentali del futuro” spiega Karl Szpunar. L’attività di “mentalizzazione”, ossia la capacità che consente di fare ipotesi, deduzioni e anticipazioni sul comportamento proprio ed altrui senza doverlo sperimentare direttamente, ha un chiaro significato adattivo perché può aiutare a pianificare le proprie azioni, o prevenire situazioni potenzialmente pericolose o dolorose.

La ricerca si è concentrata, dunque, sull’analisi del cosiddetto ‘sesto senso’. A un gruppo di volontari è stato chiesto di effettuare diversi compiti cognitivi mentre la loro attività cerebrale veniva osservata utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fmri). Si chiedeva ai soggetti di ricordare un evento personale del passato, come l’ultimo compleanno festeggiato, e di immaginarne uno futuro, per esempio il prossimo compleanno. L’attività cerebrale registrata durante queste attività, è stata confrontata con un livello base che consentiva ai soggetti di pensare ad un evento escludendo la proiezione mentale di se stesso : dovevano immaginare un personaggio famoso, Bill Clinton (scelto perché secondo gli stessi partecipanti era particolarmente facile visualizzare mentalmente la sua immagine in diverse situazioni).

Lo studio dimostra che il network neurale coinvolto nelle previsioni per il futuro non è isolato nella corteccia frontale, e che le stesse regioni cerebrali coinvolte nel ricordo delle situazioni passate sono attive anche quando il soggetto immaginava se stesso nel futuro. Quando invece l'immaginazione comprendeva anche la figura di Clinton, le zone in questione mostravano un'attività minore, probabilmente perchè i soggetti non avevano alcun ricordo di interazione diretta con Clinton, quindi dovevano derivare la sua immagine dalle reti neuronali responsabili della memoria semantica, non legata al contesto.
Ricordare eventi autobiografici e immaginarsi in uno scenario futuro manifestano simili aspetti di attività cerebrale che fanno riferimento a network neurali in larga misura sovrapponibili. “I risultati di questo studio offrono qualche indizio per rispondere all'annosa questione dell'utilità evolutiva della memoria” commenta Kathleen McDermott, un'altra autrice dello studio. “Potrebbe darsi che la capacità di ricordare in dettaglio il passato e rappresentarlo visivamente sia importante proprio perché è il presupposto per immaginare noi stessi in scenari futuri e quindi pianificare meglio i nostri comportamenti”.Ricordiamo però che alla maggior parte degli esseri umani capita di fare qualche errore clamoroso, seguendo delle ipotesi inverosimili. Non siamo degli indovini che “vedono” il futuro in una sfera di cristallo, per nostra sfortuna o fortuna.

lunedì 15 gennaio 2007

IL LIBRO NERO DELLA PSICOANALISI


E’ appena arrivato nelle librerie italiane “Il libro nero della psicoanalisi”, che rappresenta un attacco senza precedenti al sapere freudiano. Il libro cerca di scardinare le tesi e l’efficacia terapeutica della psicoanalisi. Sono questi gli obiettivi del gruppo di autori del libro, guidati da Catherine Mayer.

“Il libro nero della psicoanalisi” è stato recentemente pubblicato in Italia da Fazi editore, ma si trova da più di un anno nelle librerie francesi, dove è stato da lungo tempo oggetto di feroci polemiche. In circa ottocento pagine gli oltre quaranta autori del libro, tra cui molti americani, hanno tentato di mettere in crisi le ricerche di Freud, screditando il suo lavoro.
Già il sottotitolo del libro, “Vivere, pensare e stare meglio senza Freud” è un chiaro ed esplicito atto d’accusa nei confronti dell’autore dell’ “Interpretazione dei sogni”. Secondo gli autori, infatti, il modo di analizzare l’inconscio e i suoi meccanismi proposto da Freud presenta notevoli incongruenze.
Composto da diversi contributi, il libro condensa tutte le critiche che negli ultimi anni sono state avanzate nei confronti di Freud e della psicoanalisi
''L'ambizione di quest'opera - scrive la Meyer - e' quella di offrire ai non iniziati gli elementi di un dibattito che attraversa la nostra epoca'', ovvero quello di mettere in discussione il “dogma della psicoanalisi”.

Alla psicoanalisi non viene risparmiata alcuna critica. Anche la figura di Freud viene messa fortemente in discussione. Il padre della psicoanalisi viene accusato di aver deformato i fatti raccontati durante le sue sedute in funzione delle sue teorie, nonché di aver mentito e di aver attribuito ai suoi pazienti ricordi di cui non aveva alcuna prova. Ma un punto cruciale sono i risultati ottenibili dalla psicoterapia. Già il padre della psicoanalisi avrebbe gonfiato i risultati delle sue cure. La psicoanalisi si baserebbe così su un castello di sabbia.

Il libro nero della psicoanalisi vuole spiegare il successo della psicoanalisi con la debolezza della sua teoria. Gli autori arrivano a definire la psicoterapia “una teoria vuota”, “ una nebulosa”. Lo scopo che si prefigge come spiega l’autrice Catherine Mayer è quello di aprire un campo di discussione che cerchi di dare risposta a domanda come: la psicoanalisi è una scienza?fino a che punto è in grado di guarire?Si possono valutare i suoi risultati?Purtroppo però il libro più che aprire un dialogo, attraverso una critica ben poco costruttiva, vuole solo screditare e distruggere la psicoanalisi. Che Freud non sia esente da errori, d’altra parte, era già acquisito da tempo. Tuttavia la sua figura, secondo l’autrice di questo articolo, è molto distante da quella di dittatore imbroglione disegnata dal libro.
foto by psicocafè

domenica 14 gennaio 2007

PSICO-FLASH

L'Università Cattolica del Sacro Cuore inauguracon il nuovo anno un Corso di perfezionamento riguardo "La consulenza tecnico-psicologica in ambito giudiziario".
Un ambito di lavoro affascinante ma che richiede impegno costante e sicure tecniche e cognizioni al riguardo, tutti obiettivi che questo corso mira a fornire. E' disponibile il link per l'iscrizione e per maggiori informazioni sulle attività.
foto by problemata

sabato 13 gennaio 2007

SOMMARIO DELLA SETTIMANA

Questa settimana la psicologia ha portato a nuove, e talvolta allarmanti stime su fenomeni attuali, ma anche grazie a sapienti connubi con latre discipline ha saputo ricercare strumenti per la valutazione e parametri di confronto su argomenti basilari nella vita dell'uomo.
nessuno può sorvolare la riflessione sulla famiglia che da più ambiti, cattolici e non, è il tema base non solo di ogni riflessione filosofica che come tale si richiami alle origini, ma anche dell'interrogativo primo dell'uomo sulle sue radici.

A questo proposito abbiamo parlato:



Sempre di collaborazioni della psicologia con altre discipline si occupa un articolo che continua una serie già aprta: si parla dell'economia, dei meccanismi di scelta e del cosiddetto


Infine nuovi contributi d'avanguardia vengono rivelati da uno studio sul cervello; esisterebbe un

foto by Van


LA FAMIGLIA VISTA DA ARTE E PSICOLOGIA

Si segnala il grande successo dell'incontro tra Goldin e Cigoli a Cremona, sul tema dell'arte, le rappresentazioni e le modificazioni della famiglia. ulteriori informazioni sono reperibili a questo indirizzo, anche in formato pdf. Un tema importante per ogni cultura e tradizione e che mai come oggi chiede riflessione e attenta salvaguardia.

mercoledì 10 gennaio 2007

PSICOLOGIA DELL’ECONOMIA: LO SPILLOVER EFFECT

Robert Meyer, dell’ Università della Pennsylvania, ha pubblicato una ricerca sull’“effetto sforamento” sul numero di dicembre 2006 del Journal of Consumer Research.
Si tratta del fenomeno per cui una volta acquistato un oggetto, siamo spinti all’acquisto di ulteriori articoli, non connessi e inutili con un conseguente carico monetario maggiore di cui non c’è, al momento, consapevolezza. Che la psicologia e l’economia abbiano di recente fatto scoperte analoghe è dimostrato dalla pubblicazione recente del libro già commentato.
Meyer ricerca, tramite due esperimenti in realtà virtuale di valicare tre teorie al proposito.


La possibilità di risparmio e la presenza di offerte promozionali influenzano, a detta dello scienziato, sia il comportamento di acquisto, sia le rappresentazioni e emozioni che il consumatore vive verso la marca/negozio.
Le motivazioni sono da ricercarsi in tre teorie:
  1. della “contabilità mentale”: l’acquisto è guidato dal budget monetario che il soggetto esperisce al momento dell’acquisto, budget che cresce con l’idea di stare risparmiando (anche quando non è economicamente vero);

  2. della “emozione generalizzata”: le caratteristiche fisiche e sociali del negozio influenzano l’umore, e se ciò avviene in modo positivo, aumentano anche le possibilità di spesa;

  3. dell’“attribuzione”: il negozio e la marca vengono personalizzati e il rapporto che si intrattiene con essi è guidato dalle regole sociali e personali di comportamento.

I due esperimenti condotti in realtà virtuale chiedevano ai soggetti dapprima di fare la spesa domestica per un periodo di 35 mesi e poi di prenotare un viaggio low-cost.
Entrambi mostrano che l’offerta gratuita di prodotti/convenzioni o di sconti aumentava la probabilità di acquistare surplus non necessari. Proprio l’opposto del risparmio!

I risultati sono quindi maggiormente conformi alla teoria dell’attribuzione: non significa che le percezioni di risparmio o le caratteristiche degli ambienti non influiscano, ma che non sono la causa principale. Personalizzare i prodotti e i rapporti con i fornitori permette di agire secondo l’euristica dello scambio: se ricevo qualcosa di buono (o cattivo) , rispondo con la stessa moneta.

Nonostante le premesse di Meyer siano ampie e articolate, sembra che la componente economica perda di spessore nei risultati. Vale la pena che le indagini vengano ripetute in contesti e con variabili diverse, a fronte di numerose ricerche che evidenziano quanto il computo mentale economico-strumentale sia addirittura una componente dell’intelligenza umana.
Nel frattempo, prima di acquistare, vale la pena riflettere sui propri bias.

foto by vnee701

lunedì 8 gennaio 2007

DIPENDENZA DA CELLULARE: STIME ALLARMANTI

Una recente indagine condotta dallo psicologo Cesare Guerreschi presso il Siipac (Società italiana di intervento sulle patologie compulsive) evidenzia che la mancanza del cellulare, anche per brevi periodi, può produrre in soggetti assuefatti all’utilizzo un vero e proprio episodio depressivo che richiede intervento psicologico specialistico.
La sindrome di astinenza da telefono mobile si verifica con inappetenza, tristezza, ansia, noia, calo della libido, fino a raggiungere casi gravissimi connessi al suicidio.
Ma chi ne sono le vittime?

In generale si tratta di una percentuale del 6,5%, tra cui principalmente individui di ceto medio o medio-basso, donne , lavoratori (non dirigenti) e studenti.
Andando più in profondità si scopre che la maggioranza è composta da adolescenti e tarda infanzia, per i quali il cellulare è uno strumento sociale di aggregazione e funziona come medium per l’instaurarsi di relazioni, dall’amicizia ai primi amori. Dati confermati dal possesso di cellulare pari al 96% nella fascia compresa tra i 13 e i 17 anni.
Gli adulti hanno anch’essi un rapporto affettivo-relazionale col telefonino, ma ancora più maniacale, lo vedono come ponte e oggetto sostitutivo della realtà, senza contare che tra di essi esiste un 1% che lo vive come status symbol irraggiungibile e che pertanto si affanna alla ricerca di nuovi modelli e rare, e costose (peraltro inutili), funzioni.

Data la crescente dipendenza e la possibilità di ritrovarsi socialmente isolato, guarda caso proprio grazie allo “strumento magico” della socializzazione, il Siipac ha messo a disposizione on-line una serie di domande per un’autodiagnosi. Chi si ritrovi nella categoria dei cellulari-dipendenti viene indirizzato a specialisti e cure adatte, evitando il fai-da-te che può risultare inutile se non dannoso.

A parere dell’autrice le considerazioni da farsi sono due:
  • La possibilità di un’autodiagnosi non sempre risulta efficace e, se penso a quell’un per cento, credo che la scoperta della propria dipendenza da parte di tali soggetti potrebbe facilmente diventare un punto di forza del loro narcisismo. Tuttavia il test può aprire, e ci si augura, una via di liberazione per chi si sia accorto di vivere un problema fastidioso. L’invito è di pensare a scale e valutazioni che possano, più che diagnosticare, portare alla consapevolezza, a quella fase del processo del cambiamento nota come contemplazione.
  • Nel caso dei giovani il buonsenso della famiglia e una corretta educazione, perché no anche attraverso la scuola, possono limitare i danni e trasferire le relazioni giovanili dal mondo virtuale al mondo reale, senza per questo demonizzare l’utilizzo, e l’utilità, delle nuove tecnologie. Vale ancora l’antico adagio <In medio stat virtus>.

foto by Frechdachs20

mercoledì 3 gennaio 2007

"CENTRO DELLA GIUSTIZIA" : UNO SPECIFICO NUCLEO CEREBRALE CI DICE CIO' CHE E' BENE E CIO' CHE E' MALE


Uno speciale nucleo cerebrale è deputato alla comprensione delle ingiustizie. E’ quanto emerge dalle ricerche di Ernst Fehr, condotte presso l’Istituto delle ricerche empiriche in economia di Zurigo.


Ernst Fehr, che si occupa di ricerche sulle basi neurologiche delle regole sociali, ha individuato uno specifico gruppo di neuroni che spinge a punire il malfattore. Tale nucleo neuronale si trova nella corteccia dorsolaterale prefrontale, che si trova all’interno dei lobi frontali e che è stata definita per la sua attività “centro della giustizia”.
I soggetti coinvolti nella ricerca erano invitati a partecipare al “gioco dell’ultimatum”. Uno dei due partecipati doveva decidere come suddividere 20 dollari tra sè e l’altro partecipante. Il ricevente poteva scegliere di rifiutare la cifra destinatagli se la riteneva ingiustamente bassa.
Durante l’esperimento, Fehr attraverso impulsi magnetici, bloccava il “centro della giustizia”. E’ così riuscito a rilevare che senza la sua attività, i soggetti erano spinti ad accettare qualsiasi cifra, anche se molto bassa. Erano dunque spinti da un impulso egoistico, perdendo la capacità di comprendere le ingiustizie.


Fehr sottolinea dunque la naturale predisposizione alla giustizia, che prevale anche sull’egoismo. La ricerca ha però anche importanti conseguenze per quanto riguarda i più giovani. La regione cerebrale implicata nella percezione della giustizia è una delle ultime a maturare. Per un’adolescente è molto più difficile adattarsi alle regole sociali di quanto non lo sia per un adulto, a causa dell’immaturità del “centro della giustizia”. Questa zona è infatti una delle ultime a maturare nel cervello e raggiunge completa maturità solo verso i 20-22 anni.
foto by palladipelo 75