Sembrerebbe che il colore rosso provochi specifiche reazioni nei soggetti esposti a tale cromia, anche se non si sa ancora se si tratti di un “imprinting culturale” o faccia parte della disposizione percettiva dell’essere umano. Spunti interessanti sono forniti dalla ricerca condotta da A. J. Elliot.
L’esperimento consisteva nell’esporre i partecipanti ad una luce rossa per una frazione infinitesimale di secondo, in modo da non poter essere colta consciamente ma comunque venendo percepita dai recettori sensoriali. Il gruppo di controllo non riceveva invece questo trattamento.
Entrambi compilavano poi dei test cognitivi per la rilevazione del livello intellettivo.
Il primo gruppo presentava risultati significativamente inferiori, con un livello minore di competenza e la preferenza per compiti più semplici quando era possibile evitare i più gravosi.
L’ipotesi sottostante è che sin da piccoli si tenda ad associare il colore rosso con situazioni di pericolo e di errore, come ad esempio i semafori o le correzioni, appunto con penna rossa, delle insegnanti. Tali conoscenze pregresse e interiorizzate porterebbero pertanto ad associare il colore rosso con situazioni negative, stressanti e in cui è necessario restare inattivi piuttosto che agire.
La “motivazione di evitamento”, come viene definita dall’autore, si attiva però in automatico, non soltanto per i contesti in cui risulta adattiva, ma anche nel caso di compiti cognitivi o durante attività lavorative, influenzandole negativamente.
Gli esempi contrari sono numerosi in realtà, e serve chiedersi se sia necessario avvalersi delle conoscenze della cromoterapia, per aggiungervi una veste di scientificità, o se non si tratti invece di preferenze personali. In sintesi: il colore ha un valore di per sé o dipende da altro? E nel secondo caso, si tratta di variabili culturali o di dimensioni intrinseche alla struttura della luce o a quella percettiva umana?
L’esperimento consisteva nell’esporre i partecipanti ad una luce rossa per una frazione infinitesimale di secondo, in modo da non poter essere colta consciamente ma comunque venendo percepita dai recettori sensoriali. Il gruppo di controllo non riceveva invece questo trattamento.
Entrambi compilavano poi dei test cognitivi per la rilevazione del livello intellettivo.
Il primo gruppo presentava risultati significativamente inferiori, con un livello minore di competenza e la preferenza per compiti più semplici quando era possibile evitare i più gravosi.
L’ipotesi sottostante è che sin da piccoli si tenda ad associare il colore rosso con situazioni di pericolo e di errore, come ad esempio i semafori o le correzioni, appunto con penna rossa, delle insegnanti. Tali conoscenze pregresse e interiorizzate porterebbero pertanto ad associare il colore rosso con situazioni negative, stressanti e in cui è necessario restare inattivi piuttosto che agire.
La “motivazione di evitamento”, come viene definita dall’autore, si attiva però in automatico, non soltanto per i contesti in cui risulta adattiva, ma anche nel caso di compiti cognitivi o durante attività lavorative, influenzandole negativamente.
Gli esempi contrari sono numerosi in realtà, e serve chiedersi se sia necessario avvalersi delle conoscenze della cromoterapia, per aggiungervi una veste di scientificità, o se non si tratti invece di preferenze personali. In sintesi: il colore ha un valore di per sé o dipende da altro? E nel secondo caso, si tratta di variabili culturali o di dimensioni intrinseche alla struttura della luce o a quella percettiva umana?
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