Che cosa spinge un governo a prendere parte ad un conflitto? E’ quanto cercano di spiegare Daniel Kanheman e Jonathan Renshon, che riconducono la scelta dell’interventismo a numerosi errori cognitivi, in cui incorriamo nella vita quotidiana e anche nel caso di decisioni più rischiose come quella di entrare in guerra.
In un mondo sempre in tensione, dove ancora esplodono troppi conflitti, i due illustri autori Daniel Kahneman, premio Nobel, e Jonathan Renshon, ricercatore presso il Department of Government della Harvard University e autore del libro "Why Leaders Choose War: The Psychology of Prevention", spiegano come spesso la mente umana di fronte a situazioni critiche incappi in bias (errori) cognitivi.
L’articolo, apparso su Foreign Policy, parte dalla teoria del “gioco del falco e della colomba”, che rende conto delle possibilità inerenti a tutte le forme di competizione, in cui sono presenti due concorrenti entrambi all’oscuro della mossa altrui. Questa è infatti una situazione che rispecchia appieno il caso dell’entrata in un conflitto. Tra i membri del governo si profileranno due fazioni. Da una parte ci saranno i falchi, che proporranno azioni coercitive, anche attraverso l’uso della forza militare. Dall’altra parte le colombe, più scettiche sull’utilità dell’uso della forza e più propense ad affidarsi alla diplomazia e al dialogo. In un dibattito, le motivazioni “da falchi” saranno ritenute più valide, e quindi faranno propendere verso una decisione interventista a causa di bias cognitivi, propri della mente umana.
Psicologi sociali e cognitivi hanno identificato una serie di distorsioni cognitive prevedibili, che si verificano quando le persone valutano pro e contro di una scelta.
Sono errori che tendono a sovrastimare le proprie capacità, o che fanno valutare più negativamente l’avversario,e che intervengono anche in situazioni di un conflitto potenziale. Dopo quarant’anni di ricerche, la maggior parte dei biases elencati tende infatti a favorire i falchi.
Tra i più comuni è l’”errore di attribuzione fondamentale”, che porta a valutare le intenzioni altrui senza prendere in considerazioni le informazioni contestuali, di cui siamo a conoscenza. Sull’orlo di una guerra, anche un governo tenderà a percepire come ostile il comportamento dei rappresentanti del paese straniero, anche se fosse consapevole che quel comportamento potrebbe essere motivato dalle circostanze. Al contrario però, lo stesso comportamento avuto dai nemici e classificato come molto ostile, sarà spiegato come dovuto alle circostanze se compiuto dal governo in questione. E’ ciò che avviene quotidianamente nei litigi tra moglie e marito: quando parliamo di noi stessi teniamo fortemente in considerazione il contesto, che utilizzeremo per giustificarci. Questa tendenza è potenzialmente più dannosa nei casi in cui c’è una scarsa comunicazione tra le parti.
Molto significativa è anche la distorsione che ci porta ad essere eccessivamente positivi nei confronti di noi stessi. Da molteplici ricerche, risulta che la maggior parte delle persone si ritiene più scaltra, attraente e con talento rispetto alla media, credenze che le porta a sovrastimare il loro futuro successo. E’ anche definibile come “illusione di controllo”, ed è ciò che ha probabilmente portato la gran parte degli uomini politici americani a sottovalutare i rischi della campagna in Iraq. Nel caso di un conflitto militare, questo bias porterà a sovrastimare le probabilità di un esito positivo della guerra.
Inoltre di fronte ad una proposta della controparte, tenderemo a sottostimarla e a percepirla come ostile. E’ il meccanismo della “svalutazione reattiva”, forse la più indicata per descrivere il rapporto tra U.S.A. e il governo di Teheran.
Infine ricordo anche “l’avversione alla perdita”. La maggior parte delle persone tende a evitare una perdita certa rispetto ad una perdita potenziale, sebbene questa possa significare perdere di meno. Per chiarire il concetto gli autori propongono un esempio. Ad un soggetto viene chiesto di scegliere tra due opzioni:
perdere 890 €
90% di possibilità di perdere 1000 € e 10% di possibilità di non perdere nulla.
In questqa situazione la maggior parte dei giocatori sceglierà l’opzione b. ponendo questo esempio all’interno di un conflitto, si spiega perché molti governi preferiscano portare avanti la guerra piuttosto che arrendersi di fronte ad una perdita sicura.
Gli autori sottolineano, dunque, come in casi in cui sono veramente in gioco delle vite, troppo è legato ad errori di valutazione. Sebbene tali errori siano “specificamente” umani, la conoscenza dei loro meccanismi dovrebbe aiutarci a riflettere più accuratamente, per evitare guerre che non possono che portare morti.
In un mondo sempre in tensione, dove ancora esplodono troppi conflitti, i due illustri autori Daniel Kahneman, premio Nobel, e Jonathan Renshon, ricercatore presso il Department of Government della Harvard University e autore del libro "Why Leaders Choose War: The Psychology of Prevention", spiegano come spesso la mente umana di fronte a situazioni critiche incappi in bias (errori) cognitivi.
L’articolo, apparso su Foreign Policy, parte dalla teoria del “gioco del falco e della colomba”, che rende conto delle possibilità inerenti a tutte le forme di competizione, in cui sono presenti due concorrenti entrambi all’oscuro della mossa altrui. Questa è infatti una situazione che rispecchia appieno il caso dell’entrata in un conflitto. Tra i membri del governo si profileranno due fazioni. Da una parte ci saranno i falchi, che proporranno azioni coercitive, anche attraverso l’uso della forza militare. Dall’altra parte le colombe, più scettiche sull’utilità dell’uso della forza e più propense ad affidarsi alla diplomazia e al dialogo. In un dibattito, le motivazioni “da falchi” saranno ritenute più valide, e quindi faranno propendere verso una decisione interventista a causa di bias cognitivi, propri della mente umana.
Psicologi sociali e cognitivi hanno identificato una serie di distorsioni cognitive prevedibili, che si verificano quando le persone valutano pro e contro di una scelta.
Sono errori che tendono a sovrastimare le proprie capacità, o che fanno valutare più negativamente l’avversario,e che intervengono anche in situazioni di un conflitto potenziale. Dopo quarant’anni di ricerche, la maggior parte dei biases elencati tende infatti a favorire i falchi.
Tra i più comuni è l’”errore di attribuzione fondamentale”, che porta a valutare le intenzioni altrui senza prendere in considerazioni le informazioni contestuali, di cui siamo a conoscenza. Sull’orlo di una guerra, anche un governo tenderà a percepire come ostile il comportamento dei rappresentanti del paese straniero, anche se fosse consapevole che quel comportamento potrebbe essere motivato dalle circostanze. Al contrario però, lo stesso comportamento avuto dai nemici e classificato come molto ostile, sarà spiegato come dovuto alle circostanze se compiuto dal governo in questione. E’ ciò che avviene quotidianamente nei litigi tra moglie e marito: quando parliamo di noi stessi teniamo fortemente in considerazione il contesto, che utilizzeremo per giustificarci. Questa tendenza è potenzialmente più dannosa nei casi in cui c’è una scarsa comunicazione tra le parti.
Molto significativa è anche la distorsione che ci porta ad essere eccessivamente positivi nei confronti di noi stessi. Da molteplici ricerche, risulta che la maggior parte delle persone si ritiene più scaltra, attraente e con talento rispetto alla media, credenze che le porta a sovrastimare il loro futuro successo. E’ anche definibile come “illusione di controllo”, ed è ciò che ha probabilmente portato la gran parte degli uomini politici americani a sottovalutare i rischi della campagna in Iraq. Nel caso di un conflitto militare, questo bias porterà a sovrastimare le probabilità di un esito positivo della guerra.
Inoltre di fronte ad una proposta della controparte, tenderemo a sottostimarla e a percepirla come ostile. E’ il meccanismo della “svalutazione reattiva”, forse la più indicata per descrivere il rapporto tra U.S.A. e il governo di Teheran.
Infine ricordo anche “l’avversione alla perdita”. La maggior parte delle persone tende a evitare una perdita certa rispetto ad una perdita potenziale, sebbene questa possa significare perdere di meno. Per chiarire il concetto gli autori propongono un esempio. Ad un soggetto viene chiesto di scegliere tra due opzioni:
perdere 890 €
90% di possibilità di perdere 1000 € e 10% di possibilità di non perdere nulla.
In questqa situazione la maggior parte dei giocatori sceglierà l’opzione b. ponendo questo esempio all’interno di un conflitto, si spiega perché molti governi preferiscano portare avanti la guerra piuttosto che arrendersi di fronte ad una perdita sicura.
Gli autori sottolineano, dunque, come in casi in cui sono veramente in gioco delle vite, troppo è legato ad errori di valutazione. Sebbene tali errori siano “specificamente” umani, la conoscenza dei loro meccanismi dovrebbe aiutarci a riflettere più accuratamente, per evitare guerre che non possono che portare morti.
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