Senza l’auto non potremmo più vivere, ma una volta chiusa la portiera si è subito stressati dalla guida e dal traffico. Vanderbilt nel suo libro “Trafficologia” racconta il traffico da più punti di vista e nelle diverse culture.
Siamo in autostrada, in partenza per il tanto sospirato weekend di relax, e neanche a pensarci, nonostante aver a lungo pensato all’orario migliore per partire ed evitare il traffico eccoci lì, fermi nell’autostrada intasata dal traffico.
Ma oltre all’attesa infinita, guardiamo accanto a noi e miracolosamente nonché inspiegabilmente nella corsia accanto a noi le auto defluiscono tranquille. Perché? Rischiare e passare di là?
Siamo in un ritardo tremendo, c’è traffico per la strada, ma scorre veloce, se non fosse proprio per l’auto davanti a noi, che si mantiene costante sui 45 km orari e non è possibile superare. Che fare? Sorpasso, manovra impossibile, anche se quei 10 secondi guadagnati sembrano importantissimi. E poi si arriva al semaforo e la macchina di fronte a noi, nonostante l0incredibile cura nel mantenersi nei limiti di velocità previsti, passa beatamente con il rosso, mentre noi, diligenti ci fermiamo…
Questi sono solo due degli interminabili esempi, che sicuramente ad ognuno di voi saranno venuti in mente sul guidare e sul traffico. Fenomeni inspiegabili e quasi paradossali, che ci accadono non appena usciamo da garage, convinzioni infondate sul traffico che tuttavia guidano il nostro comportamento.
Tom Vanderbilt ha raccolto opinioni di psicologi, sociologi, statistici e urbanisti per spiegare il complesso fenomeno del traffico. Ne è risultato un libro “Trafficologia. Perché le donne causano ingorghi e gli uomini incidenti mortali” (ed. Rizzoli) che aiuta a spiegare il ragionamento alla guida e a dissipare infondati pregiudizi e spiegazioni ingenue.
Il traffico e l’auto, strettamente interconnessi tra loro, sono diventate ormai un elemento importante della vita dell’uomo moderno. Gioie e dolori, emozioni e elucubrazioni su questo aspetto che fa di fatto parte della vita sociale.
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venerdì 14 novembre 2008
sabato 8 novembre 2008
MANCINI E INSICURI?
La rivista Personality and Individual Differences ha pubblicato uno studio che rivela che le persone mancine hanno specifiche caratteristiche rispetto ai destrimani. Lo studio è stato condotto dalla Abertay University of Dundee.
Lynn Wright, autrice della ricerca, ha indagato 4 specifiche aree di personalità entro un gruppo di soggetti volontari: impulsività, inibizione, disinvoltura e introversione.
I 46vsoggetti mancini hanno ottenuto punteggi significativamente differenti dai 66 destri in tutte le aree, indagate tramite test ad hoc. Le persone mancine sono infatti maggiormente insicure, e temono in misura maggiore di commettere degli sbagli sia nelle scelte quotidiane che nelle decisioni impegnative; inoltre hanno punteggi più alti di risposte ansiogene e sono maggiormente esposti al giudizio altrui, specialmente quando si tratta di critiche e commenti negativi verso di loro o il proprio operato.
Wright si è poi interrogata sulle ragioni di questo scostamento: come essere certi che si tratti di caratteristiche stabilmente associate all’uso prevalente della mano sinistra? Come evitare di cadere in retaggi di stereotipi culturali e sociali? La spiegazione, a detta della ricercatrice, sta nei meccanismi cerebrali.
Chi è mancino attiva in misura maggiore l’emisfero destro rispetto a quello sinistro, al contrario di quanto avviene invece nei destrimani. Questa prevalenza emisferica potrebbe portare a un tono dell’umore e a tratti di personalità tendenti all’ansia e all’insicurezza dato che l’emisfero destro è anche la sede delle emozioni negative. E’ proprio in quest’area cerebrale dove si verifica infatti il controllo degli stati edonici spiacevoli, un processo che potrebbe interferire o diffondersi sulla personalità e le valutazioni della persona.
Ovviamente la ricerca condotta da Wright non può essere esaustiva ma va ad indagare in modo originale un’area che finora era stata indagata soprattutto per gli aspetti creativi che le persone mancine spesso dimostrano. Che esista per questo molto spesso un legame tra la personalità di artista e la melanconia? Aspettiamo le prossime ricerche!
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giovedì 6 novembre 2008
BUON ALLENAMENTO A RITMO DI MUSICA
La musica influisce positivamente non solo sul nostro umore ma anche sulle nostre prestazioni fisiche. Ogni tipologie di allenamento e di esercizio richiede un adeguato sottofondo musicale, in modo da migliorare le performances. Sono le conclusioni a cui è giunto il Dr. Costas Karageorghis e il suo tema della Brunel University di Londra.
Entrando in palestra si è accolti spesso dalla musica. Ma il sottofondo sonoro non deve essere considerato semplicemente un decoro, una scelta estetica per coprire i rumori degli attrezzi ed accompagnare le nostre fatiche al tapi roulant. La musica influisce positivamente sulle performances atletiche, basta trovare il ritmo giusto in relazione all’esercizio da svolgere e al nostro stato fisico.
La musica in altre parole dà la carica, ma questo era già noto. Sono stati però recentemente studiati i meccanismi alla base di questo fenomeno. Il primo a analizzare scientificamente il fenomeno è stato Daniel J. Levitin, neuroscienziato e direttore del “Laboratory for music perception, cognition and Expertise” presso la McGill University. Dagli studi di Levitin è emerso che durante l’ascolto di brani musicali il cervello produce una risposta chimica, ossia modificazioni dei livelli di dopamina che influiscono su battito cardiaco, respirazione e sudorazione.
Il Dr. Costas Karageorghis, esperto di psicologia dello sport, in collaborazione con la Brunel University di Londra, ha provato ad applicare le precedenti scoperte di Levitin al mondo dello sport e del fitness. Ha sottoposto 30 volontari ad esercizi fisici in una palestra, facendogli ascoltare contemporaneamente canzoni pop rock.
Ha così ottenuto performances migliori del 15% in termini di resistenza fisica (con punte intorno al 20%).
La ricerca di Karageorghis ha inoltre cercato di individuare i generi più indicati: infatti, non tutte le tipologie di musica risultano adatte ma vanno pensate in relazione all’età e alla tipologia di allenamento. Non si deve dunque pensare che vada bene solo una musica veloce e ritmata. Per esempio, un ritmo lento aiuta le persone anziane, ma non solo, a compiere movimenti più armoniosi, e a terminare gli esercizi più facilmente.
Se vuoi saperne di più riguardo gli effetti della musica sulle funzioni cerebrali leggi “Effetto Vivaldi”
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EMPATIA FEMMINILE
Si lo sappiamo, il tema dell'emapatia è un argomento molto studiato e discusso dalla psicologia, ma le neuroscienze, corrente di pensiero che domina gli anni attuali, sta rapidamente riesaminando molte delle tematiche principe della disciplina con un insight nuovo. Ecco allora che si le donne sono più empatiche deggli uomini, ma ecco soprattutto come ciò avviene e perchè.
La rivista BMC Neuroscienze ha infatti pubblicato i risultati di una ricerca, condotta dal Laboratorio di Elettrofisiologia presso l'Università di Milano Bicocca sotto la direzione di Alice Mado Proverbio.
24 soggetti, splittati equamente per sesso, sono stati invitati ad osservare una serie di 220 immagini a colori. Gli stimoli visivi potevano comprendere paesaggi, sia urbani che naturali, interni come uffici o esterni come spiagge e boschi, privi di presenza umana; oppure potevano raffigurare persone. I soggetti rappresentati coprivano un vasto range di caratteristiche, perciò erano presenti uomini e donne di età diversi, da soli o in coppie-gruppi, in varie situazioni sociali comuni, quali fare la spesa, andare in bici, fare sport, leggere o salutarsi.
I dati neurofisiologici hanno mostrato una diversa attivazione del cervello in concomitanza a stimoli differenti: la vista di soggetti umani attiva infatti entrambi i lati del cervello, con la partecipazione del giro fusiforme occipito-temporale. Tale meccanismo si rileva sia nel genere maschile che in quello femminile, tuttavia sussistono differenze significative nell'arousal.
la donna reagisce in modo iù massiccio dell'uomo e tale surplus di attivazione si traduce non soltanto in maggiori interesse ed attivazione, ma si traduce anche in stimoli rilevanti sul piano biologico e strettamente connessi all'azione e al pensiero. Tale attivazione è infatti alla base dell'empatia, la capacità di calarsi nei panni altrui e vivere le stesse emozioni dell'altro.
Il maggiore metabolismo femminile rispetto a quello maschile è supportato anche da altre ricerche recenti, tra le quali si cita la diversa reazione neuronale alla vista del pianto e della risata di bambini. Le regioni emotive coinvolte nel cervello femminile sono di più e ricevono una scossa maggiore alla vista di propri simili, tanto più quando esprimono emozioni, siano esse positive o negative.
Senza voler generalizzare troppo e ridurre i delicati meccanismi psicologici dell'empatia e del supporto affettivo ad una mera questione di chimica, possiamo con piacere osservare come quella che finora ci era stata descritta come fredda dotazione genetica e neurale abbia invece circuiti così complessi da renderci diversamente sensibili agli eventi della vita e al contatto con i nostri simili.
Sarebbe invece da abbandonare, almeno come fattore principe della speigazione, il ruolo della donna come nutrice e protettrice unica dei sentimenti, riconoscendo una volta tanto anche al genere maschile la sua natura prettamente umanistica.
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sabato 1 novembre 2008
TELEFONINO: L'ALTER EGO DI MAMMA
Uno studio condotto dal Cremit dell'Università Cattolica di Milano ha indagato tempi e modalità dell'utilizzo del cellulare da parte dei giovani, creando un loro profilo specifico. Ne è emerso che il cellulare non è uno strumento largamente diffuso e che gestisce buona parte delle relazioni sociali dei giovani, sia tra loro che con la rispettiva famiglia. Vediamo tutti i particolari della ricerca.
Lo studio è stato coordinato da Pier Cesare Rivoltella, direttore del Cremit (Centro di ricerca sull'educazione ai Media all'Informazione e alla Tecnologia) e docente di Tecnologie dell'Istruzione e ha visto il coinvolgimento di 64 giovani iscritti alle scuole superiori di Milano e aree limitrofe. La metà di loro appartiene a Licei, mentre l'altra ad Istituti professionali.
Gli strumenti utilizzati sono stati un questionario per l'individuazione delle caratteristiche di profilo e focus group mirati con partecipazione attiva da parte degli studenti e discussione delle loro dinamiche di utilizzo del cellulare.
Nello specifico, dall'analisi dei dati provenienti dai questionari è emerso che:
i giovani lo possiedono da un minimo di 4 fino a un massimo di sei anni e che la percentuale dei possessori si aggira intorno al 90%;
il telefonino viene utilizzato nell'arco di tutta la giornata;
gli scopi principali sono : messaggi, fotografie e giochi.
In sintesi si possono riassumere i risultati dicendo che non esistono differenze marcate tra studenti licceali e professionali e che il telefono viene concettualizzato in modo analogo da entrambi i target: è uno strumento utile ma allo stesso tempo invasivo per il mantenimento della rete sociale.
Rispetto ai propri amici e coetanei, i giovani preferiscono essere sempre reperibili pur di mancare ad occasioni sociali e ritrovi da loro ritenuti molto importanti per il mantenimento delle proprie relazioni amicali e di conoscenza.
Rispetto ai genitori invece pare stagliarsi una nuova area di controllo e complicità insieme. Si parla a tale proposito di telemothering per indicare il fenomeno per cui il giovane rinuncia a parte della propria libertà ed indipendenza "telefonica" per pattuire uscite e ritardi controllati dal contatto telefonico con i propri genitori.
Le sfide educative, come sostiene Rivoltella stesso, devono ora confrontarsi con questo uso massiccio ma begoziato del cellulare e insegnarne un uso san e consapevole.
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